Recentemente (febbraio 2010), sulla prestigiosa Rivista “Annales de cardiologie et d’angéiologie”, è stata pubblicata un’interessante messa a punto sull’angioplastica coronarica al di fuori delle sindromi coronariche acute (cioè escludendo l’angina instabile e l’infarto miocardico acuto). La maggior parte delle rivascolarizzazioni percutanee (= angioplastiche coronariche o PTCA –percutaneous transluminal coronary angioplasty – o PCI – percutaneous coronary interventions) vengono effettuate in pazienti con coronaropatia “stabile”, cioè pazienti in cui le manifestazioni della malattia coronarica aterosclerotica non presentano caratteri di ingravescenza tali da renderla “instabile”. In questi casi, l’angioplastica viene detta “elettiva” in quanto, non essendo urgente-come nell’angina instabile e nell’infarto miocardico acuto, può essere programmata. Si tratta di pazienti portatori di angina pectoris (= dolore toracico di origine coronarica) o sintomi “equivalenti” all’angina (es. dispnea, cioè mancanza di respiro in certe situazioni) che vengono sottoposti a coronarografia e riscontrati portatori di una malattia aterosclerotica passibile di angioplastica. Il trattamento di questi pazienti deve essere innanzitutto di tipo farmacologico (correzione con terapia adeguata dei fattori di rischio cardiovascolare correggibili –ipertensione arteriosa, diabete mellito, ipercolesterolemia e dislipidemia in generale-, adozione di farmaci cardioprotettivi che agiscono riducendo il consumo di ossigeno del cuore, vasodilatatori coronarici e sistemici, Aspirina o comunque antiaggreganti piastrinici per ridurre la probabilità di formazione di trombi sulle placche aterosclerotiche e per ridurre la componente infiammatoria dell’aterosclerosi). Al trattamento farmacologico devono associarsi modificazioni dello stile di vita che riducano il profilo di rischio cardiovascolare (dieta adeguata, riduzione dell’eventuale eccesso ponderale, sospensione del fumo, incremento graduale e controllato del moto fisico). Dalla sua introduzione (1977), l’uso dell’angioplastica coronarica ha avuto uno sviluppo enorme e progressivamente crescente, sino al 2007, quando lo studio “Courage” (che in realtà non ha fatto altro che confermare i dati di studi già precedentemente pubblicati) ha rimesso in discussione l’utilità dell’angioplastica nella coronaropatia “stabile”. In pratica, prima di decidere se fare o meno un’angioplastica coronarica in un paziente “stabile” (cioè con sintomatologia stabile nel tempo e non ingravescente), bisognerebbe fare una valutazione approfondita del rischio del paziente di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori (= gravi). La rivascolarizzazione miocardica andrebbe riservata ai pazienti ad alto rischio ed una volta constatato il fallimento di un trattamento farmacologico ottimale ben condotto. La scelta del tipo di rivascolarizzazione miocardica (percutanea-cioè con angioplastica coronarica- o chirurgica-bypass coronarico) dovrebbe essere discussa caso per caso, in funzione di vari elementi (numero-tipo-localizzazione ed entità delle lesioni coronariche presenti, antecedenti del paziente, comorbidità –cioè altre malattie eventualmente presenti-, esperienza del Centro, dati della Letteratura, preferenza del paziente adeguatamente informato in merito). In altre parole, non dovrebbe essere più solamente la coronarografia a far scegliere se eseguire o meno l’angioplastica, bensì un insieme di fattori. Innanzitutto, la valutazione anamnestica (= ricostruzione della storia clinica) approfondita del pazientè è di fondamentale importanza per “stratificarne” il grado di rischio cardiovascolare (quindi, visita cardiologica + Elettrocardiogramma): età, fattori di rischio cardiovascolare presenti e loro grado di trattamento, antecedenti cardiovascolari (ad es. pazienti che hanno già subito infarti miocardici e/o interventi di angioplastica e/o cardiochirurgia, scompenso cardiaco......), co-morbidità (= altre malattie eventualmente presenti che possono influenzare il tipo di scelta terapeutica), sintomatologia (tipo e gravità dell’angina pectoris, eventuali altri sintomi cardiaci rilevanti....), grado di efficacia terapeutica dei farmaci eventualmente utilizzati dal paziente e così via. In secondo luogo, la valutazione del grado di rischio del paziente deve basarsi anche su tests d’induzione d’ischemia (ad es. prova da sforzo, scintigrafia miocardica od eco-stress farmacologico), per valutare la soglia ischemica (cioè il livello di stress al quale compaiono le manifestazioni ischemiche; più esso è basso, più bassa è la riserva coronarica e più elevata è la probabilità che sia presente una malattia coronarica importante) e l’estensione dell’area di miocardio (=muscolo cardiaco dei ventricoli) a rischio (scintigrafia miocardica, eco-stress farmacologico). Altri fattori essenziali, nella valutazione del paziente, sono la funzionalità del ventricolo (calcolo della frazione d’eiezione con ecocardiogramma e ventricolografia), il numero di arterie coronarie colpite, tipo-entità e localizzazione delle lesioni coronariche riscontrate alla coronarografia (le indicazioni all’esecuzione di una coronarografia al di fuori delle sindromi coronariche acute sono riportate nelle linee guida della Società Europea di Cardiologia). Una volta ottenute tutte queste informazioni, si può discutere la scelta del trattamento da farsi. Secondo le raccomandazioni della Società Europea di Cardiologia, una volta deciso di sottoporre il paziente a rivascolarizzazione miocardica, la scelta del tipo di rivascolarizzazione (chirurgica-bypass coronarico- o percutanea –angioplastica coronarica) deve tener conto di diversi fattori: *rischi di morbilità e mortalità legati alla procedura; *probabilità di successo a seconda della(e) lesione(i) coronarica(he) presente(i); *rischi di restenosi e trombosi, in caso di angioplastica; *possibilità o meno di effettuare una rivascolarizzazione completa, in caso di malattia multivascolare; *esistenza o meno di diabete mellito (nei diabetici, il by-pass coronarico presenta migliori risultati rispetto all’angioplastica coronarica); *esperienza del Centro; *preferenze del paziente. La rivascolarizzazione percutanea (angioplastica) sembra più indicata in pazienti non diabetici, con malattia coronarica mono- o bivasale, con lesioni coronariche critiche (= grado di stenosi pari o superiore al 70% del lume del vaso) dilatabili a basso rischio e con aree di miocardio “ a rischio” vaste o mediamente vaste. Al contrario, non sembra ragionevole proporre una rivascolarizzazione (nè percutanea nè chirurgica) nelle seguenti situazioni: *pazienti con una o due lesioni coronariche non prossimali (cioè non situate nel primo tratto del vaso), poco o per nulla sintomatici, che non sono in trattamento medico ottimale o per i quali non vi sia prova d’ischemia miocardica spontanea od inducibile od ancora se la zona di miocardio “a rischio” è di estensione molto limitata *in caso di stenosi coronariche di entità intermedia (50-70%) senza prova d’ischemia *in caso di stenosi non significative (inferiori al 50%) *in caso di procedura ad alto rischio (rischio di mortalità superiore al 10-15%), a meno che non sia in gioco un rischio di morte in assenza della procedura e comunque non prima di aver valutato correttamente il rapporto rischio/beneficio della procedura. Per quanto riguarda la scelta del tipo di rivascolarizzazione (cioè chirurgica-bypass coronarico- o percutanea- angioplastica coronarica), nel caso si decida che il paziente va rivascolarizzato, bisogna ricordare che gli obiettivi della rivascolarizzazione sono essenzialmente tre: limitare od abolire i sintomi, proteggere il miocardio irrorato dalle coronarie che necessitano di rivascolarizzazione (cioè ridurre le probabilità che, con l’occlusione della coronaria, una più o meno vasta area di muscolo ventricolare vada incontro ad ischemia od infarto) e migliorare la sopravvivenza del paziente. Ma, per ottenere questi obiettivi, bisogna rivascolarizzare tutti i pazienti portatori di stenosi coronariche? La risposta è chiaramente no. Conviene apprezzare, per ciascun malato, il rapporto rischio/beneficio della procedura (bisogna infatti sottolineare che nemmeno l’angioplastica coronarica, pur non essendo un intervento cardiochirurgico, come tutte le procedure invasive e tanto più avendo a che fare con arterie che irrorano il cuore, non è una procedura esente da rischi ed inoltre espone il paziente alla necessità di doppia antiaggregazione (cioèdi assumere due farmaci ad azione antiaggregante- quindi anticoagulante –che di solito, almento per il momento, sono ASA –Aspirina- e Clopidogrel -Plavix) per periodi di tempo anche prolungati, aumentando il rischio emorragico ed i problemi che si incontrano nel caso il paziente necessiti di un intervento chirurgico). Bisogna quindi tener conto delle raccomandazioni e di tutti i dati sopra riportati, per arrivare ad una decisione. A questo punto ci si può chiedere: esiste ancora uno spazio per l’angioplastica coronarica nel trattamento della malattia coronarica stabile attualmente? Questa è la domanda sollevata dopo la pubblicazione dello studio “Courage” nel 2007, che in realtà era già stata anticipata da una meta-analisi pubblicata su Circulation nel 2005 che comparava l’angioplastica al trattamento medico ottimale nella patologia coronarica clinicamente stabile, arrivando a delle conclusioni simili a quelle del Courage, cioè che in questi casi la rivascolarizzazione percutanea non migliorava la prognosi del paziente e l’unico impatto positivo che aveva era sulla sintomatologia del paziente, al prezzo peraltro di una serie di complicazioni periprocedurali non trascurabili. Quindi, il messaggio fondamentale che viene da questi studi è che, al momento, salvo casi particolari, nel paziente coronarico clinicamente stabile, la rivascolarizzazione (chirurgica o con angioplastica) deve essere riservata ai pazienti ad alto rischio, che rimangono sintomatici nonostante un trattamento medico ottimale. Per quanto riguarda la domanda: in quali pazienti scegliere l’angioplastica ed in quali l’intervento cardiochirurgico? Una meta-analisi recente di 23 pubblicazioni paragonanti l’angioplastica al by-pass coronarico ha rilevato che la mortalità a dieci anni dall’intervento è sostanzialmente la stessa nei due gruppi (cioè inferiore all’1%); nei pazienti sottoposti a by-pass coronarico vi è una maggior incidenza di complicazioni neurologiche (principalmente danni vascolari cerebrali), mentre nei pazienti trattati con angioplastica vi sono più casi di recidive di angina pectoris a 5 anni e più casi di necessità di ulteriori interventi di rivascolarizzazione (percutanea o chirurgica) a distanza. In alcuni casi particolari (es. malattia critica del tronco comune della coronaria sinistra, patologia questa ad alto rischio di eventi fatali), almeno per ora, l’intervento cardiochirurgico di by-pass rimane la scelta primaria, a meno che il paziente non presenti un rischio chirurgico proibitivo. Anche il recente studio Syntax, di grande ampiezza (1800 pazienti) ha paragonato, nei portatori di coronaropatia clinicamente stabile,, i risultati della rivascolarizzazione percutanea (angioplastica) con impianto di stent a rilascio di farmaco con quelli della rivascolarizzazione chirurgica (by-pass coronarico). I risultati dello studio sono in linea di massima comparabili a quelli degli studi precedentemente esposti: a 12 mesi, non è stata notata alcuna differenza statisticamente significativa tra i due gruppi in termini di mortalità nè in termini di eventi cardiovascolari maggiori. Nel gruppo sottoposto ad angioplastica, peraltro, vi era un’incidenza significativamente maggiore di infarti miocardici e di necessità di ricorrere ad ulteriori interventi di rivascolarizzazione. Per quanto riguarda i pazienti diabetici, la mortalità, in tale sottogruppo, era significativamente più alta che nei non diabetici qualsiasi fosse il tipo di intervento scelto, ma vi era un’incidenza significativamente più alta di eventi cardiovascolari maggiori e di necessità di ricorrere ad ulteriori interventi di rivascolarizzazione nei pazienti sottoposti ad angioplastica percutanea. Tutti questi dati fanno quindi pensare che , nella coronaropatia stabile, l’angioplastica coronarica percutanea sia particolarmente indicata nei pazienti non diabetici, con malattia coronarica interessante uno od al massimo due vasi e con lesioni coronariche (placche) che siano dilatabili a basso rischio (tipo ed accessibilità di lesione) o nei pazienti non operabili per eccessivo rischio cardiochirurgico. Anche lo studio BARI 2D ha evidenziato come, al di fuori dei pazienti più gravi, per i quali una rivascolarizzazione chirurgica sembra la più idonea, sembra che ai restanti pazienti dibatici con coronaropatia stabile si possa ragionevolmente proporre una strategia “medica” (cioè una terapia farmacologica e non interventistica) come “primo approccio”, salvo ricorrere in un secondo momento alla rivascolarizzazione in caso di mancata od insufficiente risposta alla terapia medica (confermando, in questo, i risultati dello studio Courage). In conclusione, pur avendo rappresentato (e rappresentando tuttora) l’angioplastica coronarica una significativa “arma” in più nella terapia della malattia aterosclerotica coronarica, non bisogna “esagerare” con le indicazioni a tale intervento; in particolare, nel gruppo dei coronaropatici stabili dal punto di vista clinico, la rivascolarizzazione miocardica va riservata ai pazienti con profilo di rischio più elevato, che rimangono sintomatici nonostante una terapia farmacologica ottimale e ben condotta. Nel caso si decida di ricorrere alla rivascolarizzazione, la scelta del tipo di essa (percutanea- cioè angioplastica – o cardiochirurgica – cioè by-pass coronarico) va fatta caso per caso, prendendo in considerazione diversi elementi (età del paziente, antecedenti, profilo di rischio cardiovascolare, comorbidità (ad es. presenza di diabete e/o insufficienza renale), rischio chirurgico del paziente, numero di coronarie su cui intervenire, entità – localizzazione (accessibilità) e tipo delle lesioni coronariche, esperienza del Centro e preferenze del paziente. In ogni caso, il paziente, prima della procedura, va adeguatamente informato sui motivi della scelta. Bibliografia 1) Pumyrat è., Blanchard D.: Angioplastie coronaire : indications, limites et résultats en dehors des syndromes coronaires aigus en 2009. Annales de Cardiologie et d’Angéiologie, 59 (2010), 25-30. 2) Boden WE et al. : Optimal medical therapy with or without PCI for stable angina. N. Engl. J. Med. 2007; 356: 1503-16 3) Katritsis DG. et al.: Percutaneous coronary interventions versus conservative therapy in non acute coronary artery disease: a meta-analysis. Circulation, 2005;111(22);2906-12. 4) Bravata DM et al.: Systematic review: the comparative effectiveness of percutaneous coronary interventions and coronary artery bypass graft surgery. Ann. Intern. Med. 2007;147:703-16. 5) Ong AT et al.: The SYNergy between percutaneous coronary interventions with TAXus and cardiac surgery (SYNTAX) study: design, rationale, and run-in phase. Am. Heart J. 2006 Jun; 151(6): 1194-204. 6) The BARI 2D study group. A randomized trial of therapies for type 2 diabetes and coronary artery disease. N. Engl. J. Med. 2009;360: 2503-15 Parole chiave: Angioplastica coronarica, sindrome coronarica acuta, angina pectoris, aterosclerosi coronarica, malattia coronarica stabile, by-pass coronarico. |