La Food and Drug Administration
(F.D.A.) aggiunge nuove avvertenze
cautelative per le Statine
Assumere una Statina può fare aumentare i
valori di glicemia ed Emoglobina Glicata
(HbA1c); ciò è quanto si rileva da una
nuova avvertenza cautelativa emessa dalla
F.D.A., aggiunta alle restanti informazioni
d’uso dell’intera classe delle Statine.
Recenti Studi su larga scala effettuati su
Statine molto in uso, hanno infatti
dimostrato che l’assunzione di elevate dosi
di Statine può comportare un incremento del
rischio di contrarre Diabete Mellito o
comunque peggiorare il controllo glicemico.
Ciò è stato dimostrato per elevate dosi di
Rosuvastatina ed Atorvastatina. L’entità di
tale incremento, peraltro, è lieve e non
viene considerata significativa da molti
Specialisti del campo, che inoltre
considerano la qualità e la quantità dei
dati prodotti non sufficiente per aggiudicare
un vero e proprio rischio diabetogeno alle
Statine, tanto più se ci si confronta con
l’indiscutibile elevata entità del beneficio
delle Statine sulla prognosi cardiovascolare
dei pazienti. Da un’attenta analisi dello
Iupiter (lo studio maggiormente “incriminato”
in tal senso), inoltre, emerge il dato che
l’80% dei pazienti che avrebbero in seguito
sviluppato diabete mellito avevano già di
base valori di glicemia a digiuno superiori a
100 mg%, cioè erano pazienti che molto
probabilmente avrebbero comunque sviluppato
il diabete; in più, proprio tali pazienti
traevano dalle Statine un beneficio sugli
eventi cardiovascolari simile a quello di
coloro che non erano affetti da diabete.
Infine, le segnalazioni della FDA di cui
sopra non riguardano la Pravastatina, che, al
contrario delle altre Statine, nello studio
WOSCOPS ha dimostrato una riduzione
dell’incidenza di diabete mellito nei
pazienti che ne facevano uso.
La F.D.A. ha incluso anche informazioni a
riguardo di possibili (peraltro lievi e
reversibili) effetti collaterali sulle
capacità cognitive da parte delle Statine.
Non vi sono peraltro ancora certezze su tali
possibili effetti, probabilmente molto rari,
nè sul fatto che siano secondari o meno alle
Statine.
La F.D.A. elimina inoltre la raccomandazione
di sottoporre i pazienti in trattamento con
Statine a periodici controlli degli enzimi
epatici, in quanto questo approccio si è
rivelato inefficace nell’individuare e
prevenire i “rari ed imprevedibili” danni
epatici correlati all’uso di Statine. La
F.D.A. raccomanda di interrompere
l’assunzione di Statine se il paziente
dovesse sviluppare segni e sintomi di serio
danno epatico, iperbilirubinemia e/o ittero
(ovviamente, in tali casi, bisogna escludere
altre potenziali cause di danno epatico, es.
epatiti). Nel caso non si possa escludere che
il farmaco possa essere stato causa o
concausa del problema, esso non dovrebbe
essere ripreso una volta risolto il danno
epatico.
A difesa delle Statine, oltre ai dati sopra
riportati, bisogna anche ribadire (come è
stato anche riportato da diversi lavori in
Letteratura usciti dopo questi “warnings”
della FDA) che il rapporto rischio/beneficio
delle Statine, nei pazienti a medio-alto
rischio di eventi cardiovascolari legati alla
malattia aterosclerotica, rimane largamente a
favore del beneficio; sono infatti
indiscutibili i benefici apportati dalle
Statine, nella loro ormai lunga storia, alla
prognosi dei pazienti affetti da
aterosclerosi coronarica e da altre
vasculopatie aterosclerotiche. Il trattamento
con Statine, oltre ad abbassare i livelli di
LDL colesterolo e di colesterolemia totale,
induce favorevoli cambiamenti nella
morfologia della placca aterosclerotica,
rendendola più stabile, aumentando lo
spessore della capsula fibrotica e diminuendo
il volume di lipidi in essa contenuti e, in
ultima analisi, anche della placca stessa
(che talora, se presa precocemente, può anche
regredire). Ciò è stato dimostrato
anche con sofisticate metodologie di
visualizzazione diretta intracoronarica delle
placche, come l’IVUS (Ultrasuoni) e l’OCT
(Tomografia a coerenza ottica). Già nel 2007
una meta analisi di 5 trials clinici aveva
dimostrato come un trattamento aggressivo con
Statine (Rosuvastatina, Atorvastatina,
Simvastatina) non solo rallentasse la
progressione della malattia coronarica, ma
anche potesse causare la regressione della
placca aterosclerotica.
C’è anche da dire che una metanalisi di 5
trials effettuati con le principali statine
ha dimostrato che l’aumento assoluto del
rischio di sviluppare diabete con Statine,
rispetto al placebo, è minimo (0,45%),
contro invece un’elevata percentuale di
riduzione di morte ed eventi cardiovascolari
(che può arrivare – vedi Jupiter- anche al
20% per quanto riguarda la morte ed al 44%
per ciò che concerne eventi compositi di
infarto miocardico non fatale, ictus non
fatale, ospedalizzazione per angina
instabile, interventi di rivascolarizzazione
miocardica e morte per eventi cardiovascolari
). Inoltre, vi sono studi che dimostrano che
proprio i diabetici sono la popolazione che
più si avvantaggia di una terapia con
Statine. Nei Trials HPS Study, CARDS ed
ASCOT-LLA il sottogruppo dei pazienti
diabetici ha tratto significativo beneficio,
sugli eventi cardiovascolari, dalle Statine
in prevenzione primaria; nei pazienti ad alto
e medio rischio di eventi coronarici il
beneficio delle Statine è indiscutibile e
largamente provato; si può invece discutere
sul rapporto rischio/beneficio nei pazienti a
basso rischio. Vi è anche da sottolineare
come, siccome i Medici sono più propensi a
prescrivere Statine a pazienti obesi,
ipertesi, dislipidemici o con sindrome
metabolica-(cioè proprio quelli che più
facilmente, già di per se stessi, vanno
incontro al diabete mellito), se uno studio
non è adeguatamente randomizzato e
controllato non c’è da stupirsi come i
pazienti che assumono Statine vadano più
facilmente incontro a Diabete Mellito.
La Letteratura è peraltro ricchissima di
lavori (anche molto recenti) che dimostrano
l’effetto benefico e protettivo delle Statine
nei pazienti affetti da malattie
cardiovascolari – coronariche
aterosclerotiche. Gli Stessi studi che hanno
evidenziato una maggior difficoltà nel
controllo glicemico hanno poi peraltro
concluso che il beneficio netto delle Statine
sugli eventi Cardiovascolari è
inequivocabile. Il messaggio che ne deriva è
che i pazienti che già di base hanno
multiple componenti della Sindrome Metabolica
e sono quindi “per se” già predisposti al
Diabete Mellito (o ne sono già affetti),
quando iniziano una terapia con Statine
devono intensificare i tentativi di
migliorare il loro stile di vita (dieta
adeguata, moto fisico regolare, calo di
peso…) per combattere l’ulteriore tendenza ad
iperglicemia che possono presentare.
Le segnalazioni della F.D.A. sopra riportate,
quindi, non devono creare ingiustificati e
dannosi allarmismi nè tantomeno indurre i
pazienti ad autosospendersi una classe di
farmaci che si è dimostrata così
vantaggiosa per i pazienti coronaropatici e
vasculopatici in generale, ma vanno
interpretate come ulteriore dimostrazione
della serietà della F.D.A., serietà che si
traduce anche nel riportare in scheda tecnica
possibili effetti collaterali minori e
comunque reversibili. Se il paziente nutre
dubbi in proposito, resta sempre valida la
regola aurea della Medicina, cioè un
colloquio con il Cardiologo per valutare la
situazione nel suo insieme e senza remore od
allarmismi.
2/1/2013
Fonti: FDA, HEARTWIRE feb. 28 and sept. 21,
studi JUPITER e PROVE-IT TIMI 22, WOMEN
HEALTH INITIATIVE, BMJ 2012 Sept. 13.
Le Statine dovrebbero essere utilizzate in
prevenzione primaria?
Sul JAMA continua il
dibattito.
Nell’Aprile 2012 il prestigioso JAMA (Journal
of American Medical Association) ha
pubblicato un dibattito sul “contenzioso”
ancora in atto riguardante l’opportunità o
meno di utilizzare le Statine in prevenzione
primaria, cioè quando ancora non si sono
verificati eventi cardiovascolari. Il
dibattito ha coinvolto insigni Studiosi della
materia. Secondo i sostenitori del “contro”,
un uomo sano non dovrebbe assumere Statine,
poichè vi sono altri mezzi efficaci per
ridurre il rischio cardiovascolare (dieta
adeguata, combattere il sovrappeso, attività
fisica, sospensione del fumo), senza bisogno
di esporre il paziente ai potenziali effetti
collaterali delle Statine. Secondo tali
Studiosi, inoltre, se il paziente assume una
Statina ne può derivare una sensazione di
eccessiva protezione che lo può indurre a
trascurare le misure primarie di stile di
vita sopra citate. I sostenitori del “pro”,
invece, pur concordando sul fatto che uno
stile di vita adeguato deve sempre costituire
il caposaldo della prevenzione
cardiovascolare nei pazienti con
ipercolesterolemia, ribattono che esso non è
sufficiente e che l’aggiunta delle Statine
può essere di importanza fondamentale nei
pazienti identificati come a rischio
aumentato di eventi coronarici (angina
pectoris, infarto miocardico, morte
improvvisa, scompenso cardiaco, aritmie).
Essi sostengono (a mio parere giustamente)
che non vi è logica nell’aspettare che un
paziente sia colpito da infarto miocardico
per iniziare la terapia con Statine; vi sono
ampi e collaudati mezzi per identificare se
un soggetto “apparentemente sano” presenta un
profilo di rischio di media od elevata
entità per eventi cardiovascolari
aterosclerotico-ischemici e, in particolare,
se è affetto da aterosclerosi coronarica
(visita cardiologica con accurata anamnesi,
ECG, esami ematochimici, ECG da sforzo o
Scintigrafia Miocardica da sforzo, angio-TAC
coronarica….). Tali mezzi aiutano ad
“individualizzare” la decisione terapeutica
in base al profilo di rischio del paziente.
Gli studi WOSCOPS ed AFCAPS-TexCAPS hanno
dimostrato che l’uso delle Statine in
prevenzione primaria determina una riduzione
significativa dell’incidenza di Infarto
Miocardico ed altri eventi coronarici, come
pure la buona tolleranza a Pravastatina e
Lovastatina. Inoltre, gli effetti collaterali
delle Statine sono, se esse vengono usate con
raziocinio nei pazienti che maggiormente ne
necessitano, ampiamente inferiori ai benefici
apportati dalle stesse in termini di
riduzione di eventi cardiovascolari e
coronarici in particolare. Si tratta comunque
di valutare il paziente nel modo più ampio
possibile, perchè il problema non è solo
“abbassare la colesterolemia” ma anche e
soprattutto ridurre il profilo di rischio
cardiovascolare e coronarico complessivo,
identificando i pazienti a più elevato
rischio che possano maggiormente beneficiare
della terapia con Statina. Vi sono comunque
tabelle del rischio cardiovascolare e
Raccomandazioni-Linee Guida che aiutano a
decidere in materia.
4/1/2013
Fonti: HEARTWIRE April 10,2012 – JAMA 2012
n°. 307 –WOSCOPS-AFCAPS-TexCAPS
Nuove analisi sul “mondo reale” evidenziano
buoni risultati (uguali o superiori a quelli
del Warfarin) dei nuovi anticoagulanti nella
fibrillazione atriale non valvolare; sono
peraltro necessari cautela e nuovi studi a
lungo termine, a causa di incognite ed
effetti collaterali degli stessi
Nel Marzo 2012 sono stati pubblicati dati
estrapolati dal “mondo reale” dei pazienti
che dimostrano come i nuovi anticoagulanti
(Dabigatran, Apixaban e Rivaroxaban)
presentino un profilo di beneficio clinico
netto superiore a quello del Warfarin
(Coumadin) nei pazienti con fibrillazione
atriale non valvolare ad elevato rischio di
ictus ischemico. Non si possono ancora fare
confronti certi fra i tre nuovi
anticoagulanti in quanto mancano Studi “testa
a testa” di confronto tra l’uno e l’altro;
gli studi sino ad ora effettuati, infatti,
riguardano il confronto tra ciascuno di essi
ed il Warfarin. Dei tre nuovi farmaci, il
Dabigatran è stato sinora quello rimasto in
commercio più a lungo; recentemente,
tuttavia, sono stati avanzati dubbi sulla sua
sicurezza d’uso e su una sua eccessiva
liberalizzazione d’impiego, particolarmente
nei pazienti anziani, globalmente fragili e
con insufficienza renale, più facilmente
inclini e fenomeni emorragici. Sempre a
carico “negativo” del Dabigatran vi sono una
maggior incidenza di fenomeni di intolleranza
gastrointestinale-emorragie digestive ed un
possibile lieve incremento di infarti
miocardici nei pazienti trattati con tale
farmaco. I tre nuovi farmaci si sono
dimostrati superiori al Warfarin (nella
prevenzione di eventi trombo embolici e nella
riduzione di ictus sia ischemici che
emorragici) in particolare nei pazienti ad
alto rischio trombo-embolico (sempre comunque
nel campo della fibrillazione atriale non
valvolare; tali farmaci infatti non sono
approvati nei pazienti portatori di protesi
valvolari che necessitino di terapia
anticoagulante orale). In particolare, il
dato più positivo sembra essere la riduzione
di emorragie intracraniche.
Tutto ciò non sminuisce peraltro il valore
del Warfarin, farmaco approvato per l’uso
nell’uomo sin dal 1954 e che, a buon titolo,
si può dire abbia salvato milioni di vite
umane; mentre vi sono pazienti che assumono
Warfarin anche da 20-30 anni, il follow-up
massimo di pazienti in terapia con tali nuovi
farmaci è al massimo di due anni; sono
quindi necessari nuovi studi con periodi più
lunghi di follow-up per poter esprimere
giudizi più definitivi. Già adesso,
peraltro, si possono individuare sottogruppi
di pazienti con fibrillazione atriale non
valvolare che possono beneficiare di tali
nuovi farmaci anticoagulanti (vedi “Buone
notizie per i pazienti in terapia
anticoagulante orale cronica per
fibrillazione atriale” nelle precedenti
“News” di questo Sito). Per contro, a sfavore
del Dabigatran, sono stati evidenziati in
Letteratura diversi punti, oltre alla
mancanza di studi a lungo termine : mancanza
di un antidoto in caso di emorragie da
sovradosaggio, mancanza di dati su
un’individualizzazione dei dosaggi, mancanza
di evidenze negli AfroAmericani , nei casi di
creatinina clearance inferiore a 30 ml/m’ e
per la dose di 75 mg per due al dì, dati non
esaustivi su interazioni con altri farmaci,
necessità di adeguata compliance del
paziente per due somministrazioni giornaliere
e possibilità di assunzione, da parte del
paziente, di eccessiva “confidenza” nell’uso
del farmaco (mancando lo stimolo costituito
dalla necessità di prelievi ematici
periodici) che può portare a dimenticanze
pericolose nella sua assunzione, costo del
farmaco, aumento dei fenomeni di dispepsia ed
emorragie gastrointestinali-queste ultime in
particolare in pazienti con precedenti
problemi di ulcere gastrointestinali,
mancanza di tests validati per misurare
l’efficacia del farmaco, mancanza di un
adeguato range terapeutico, assenza di metodi
per verificare un’eventuale mancata aderenza
al trattamento da parte del paziente, maggior
frequenza di sanguinamenti nei pazienti di
età superiore a 75 anni, eliminazione del
farmaco per l’80% per via renale con
aumentato rischio di emorragie in caso di
ridotta funzione renale, aumentato rischio di
infarto miocardico nei portatori di malattia
coronarica e nelle sindromi coronariche
acute, maggior esposizione all’effetto del
farmaco in pazienti con creatinina clearance
fra 30 e 50 ml/m’, di età superiore a 75
anni ed in terapia con Verapamil. Alcuni di
questi punti “negativi” sono a carico anche
degli altre due nuovi anticoagulanti ,
Rivaroxaban ed Apixaban.
7/1/2013
Fonti: HEARTWIRE, Thrombosis and Haemostasis
2012:107, Pharmacotherapy 2012 Early Online
1-12.
I farmaci che innalzano il Colesterolo HDL
attualmente in uso non hanno dimostrato
benefici sugli eventi cardiovascolari
Nonostante sia provata la relazione tra bassi
valori di colesterolemia HDL (inferiore a 40
mg% negli uomini ed a 50 mg% nelle donne) e
l’incidenza di eventi
cardiovascolari-coronarici ischemici, due
ampi Studi (AIM-HIGH ed HPS2-THRIVE) hanno
dimostrato come l’aggiunta di Niacina (Acido
Nicotinico, Vitamina B3) con o senza
Laropiprant (farmaco che riduce gli effetti
collaterali vasomotori di flushing della
Niacina) alla terapia con Statine non solo
non riduca l’incidenza di eventi
cardiovascolari maggiori ischemici (infarto
miocardico, morti coronariche,
rivascolarizzazione coronarica, stroke)
rispetto al solo uso di Statine, nonostante
la Niacina aumenti significativamente i
livelli di HDL, ma anche incrementi
significativamente l’incidenza di effetti
collaterali non fatali ma seri.
In precedenza, altri tipi di farmaci (gli
inibitori della CETP), pur innalzando i
livelli di HDL, si erano dimostrati
inefficaci nel ridurre gli eventi
cardiovascolari e coronarici, dimostrando
anche effetti collaterali negativi
importanti.
Allo stato attuale delle conoscenze, sembra
che il miglior modo di contrastare bassi
livelli di HDL per ottenere un miglioramento
della prognosi cardiovascolare-coronarica sia
abbassare i livelli di LDL al minimo (sotto i
70 mg%) con le Statine ed adottare uno stile
di vita adeguato (calare di peso, moto fisico
regolare ma non stressante, dieta adeguata,
bere modiche quantità di vino rosso,
smettere di fumare), correggendo al contempo
eventuali altri fattori di rischio
cardiovascolare presenti (es. ipertensione
arteriosa, diabete mellito…).
Un dato inoltre che sta venendo avanti con
sempre maggior evidenza e che verosimilmente
sarà oggetto nei prossimi anni di studi
sempre più approfonditi, oltre che dal punto
di vista clinico, anche da quello molecolare
e biochimico, è questo: sembra che, più che
la quantità di HDL, o comunque “oltre “ la
quantità, sia importante la loro qualità,
cioè la loro composizione (particelle di
HDL, apolipoproteine), per cui si può
verificare l’apparente paradosso che un
paziente con valori relativamente bassi di
HDL “ben funzionanti” sia maggiormente
protetto di uno con valori più elevati di
HDL “disfunzionanti”.
In seguito ai risultati deludenti dello
Studio HPS2-THRIVE di cui sopra, l’E.M.A.
(European Medicines Agency) ha raccomandato
recentemente che il marketing, le forniture e
le autorizzazioni dei tre identici preparati
contenenti Niacina e Laropiprant (Tredaptive,
Pelzont e Trevaclyn) per il trattamento dei
pazienti adulti con dislipidemia siano
sospesi nell’Unione Europea (11/1/2013).
Fonti: HEARTWIRE, AIM_HIGH Study, HPS2-THRIVE
Study, Management od Dyslipidemia and
residual CV risk: importance of lipoprotein
particle analysis. The Heart-Org. CME.
La chiusura del forame ovale pervio con
device non riduce significativamente il
rischio di ictus o TIA embolici ricorrenti
Si parla di “stroke criptogenetico” (od
idiopatico) quando, di fronte ad un TIA od
ictus di natura ischemica, non si riesce ad
individuare una (o più) causa(e)
plausibile(i) dello stesso (ad esempio in un
paziente giovane o relativamente giovane
senza apparenti fattori di rischio
cardiovascolare nè cardio-vasculopatie –
aritmie – fonti emboligene riconosciute). Tra
le varie possibili (ma non dimostrate se non
in rarissimi casi) cause di stroke ischemico
viene incluso il forame ovale pervio, cioè
la persistenza di un foro a livello della
parte centrale del setto interatriale, foro
che normalmente dovrebbe chiudersi nei primi
mesi di vita ma che può persistere anche
nell’età adulta nel 25% della popolazione
generale, senza dare alcun disturbo (viene
generalmente scoperto casualmente facendo un
ecocardiogramma; talora non lo si vede
nemmeno, tanto è piccolo, a meno che non si
usino più sofisticati metodi di ricerca
ecocardiografica –ecocardiogramma con
contrasto od ecocontrastografia, sia
transtoracico che transesofageo). Se in un
paziente che ha sofferto di stroke
criptogenetico si scopre un forame ovale
pervio, si ipotizza che da un trombo
formatosi a livello del circolo venoso o nel
cuore destro si possa essere staccato un
embolo che abbia attraversato il forame ovale
finendo così nel settore sinistro del cuore,
dal quale poi, espulso dal ventricolo sn. In
aorta, possa essere andato ad occludere un
arteria od arteriola cerebrale. Ciò
effettivamente può capitare (ad esempio in
pazienti che vengono colpiti prima da embolia
polmonare e subito dopo da ictus ischemico)
ma, se da una parte questo evento (definito
“embolia paradossa”) è raro, dall’altra,
allo stato attuale, nella maggior parte degli
ictus criptogenetici rimane solo un’ipotesi,
non confermata o non confermabile, tant’è
vero che, come sopra detto, il 25% della
popolazione generale è portatrice di forame
ovale pervio senza saperlo, in quanto esso
nella gran parte dei casi non provoca
disturbi e comunque, se li provoca, solo in
rarissimi casi si riesce ad identificare
all’ecocardiografia il passaggio di emboli
attraverso il forame ovale da destra a
sinistra. In ogni caso, poichè da molto
tempo si dibatte se valga la pena o meno
chiudere il forame ovale pervio con
dispositivi (devices) introdotti per via
percutanea, sono stati condotti tre larghi
studi,il CLOSURE 1, il RESPECT ed il PC
trial, per valutare se, in pazienti che
avevano sofferto di stroke criptogenetico ed
erano portatori di forame ovale pervio, la
chiusura dello stesso con Devices introdotti
per via percutanea determinasse una scomparsa
o comunque una significativa riduzione degli
strokes. In nessuno dei tre Studi è stata
raggiunta la significatività statistica per
poter affermare che tale procedura sia
veramente efficace nel ridurre gli stroke-TIA
ricorrenti, in confronto con la terapia
medica, nè tantomeno per farli scomparire.
Si sono accese discussioni
sull’interpretazione statistica dei dati di
alcuni sottogruppi, ma complessivamente ciò
non ha cambiato il quadro finale: allo stato
attuale, non è dimostrato che la chiusura
con device del forame ovale pervio riduca
significativamente e chiaramente strokes-TIA
ischemici e fenomeni trombo embolici
arteriosi ricorrenti, nè tantomeno che li
elimini. Quindi, al momento, non è provato
che tale procedura interventistica sia
superiore alla sola terapia medica in questo
campo, anche se in alcuni studi vi è un
“trend” sia pur non statisticamente
significativo alla riduzione degli strokes
ricorrenti dopo chiusura del forame ovale.
Questi risultati apparentemente deludenti
possono essere dovuti a diverse cause, in via
ipotetica:
1) Gli strokes ed i TIA non erano dovuti alla
presenza del forame ovale pervio
2) Gli strokes ed i TIA erano dovuti solo
parzialmente alla presenza del forame ovale
pervio
3) Lo stesso Device, essendo un corpo
estraneo, può costituire una fonte di
tromboemboli
4) Sono possibili complicanze periprocedurali
o tardive che possono dar luogo ad
embolizzazioni (ad esempio, nel CLOSURE 1,
nel gruppo di pazienti sottoposti a procedura
interventistica erano più frequenti
complicazioni vascolari e fibrillazione
atriale- quest’ultima a sua volta possibile
causa di strokes-TIA; inoltre il 14% dei
forami restava parzialmente pervio ad un
anno)
5) è possibile che, col raffinarsi della
tecnologia, in futuro si possa disporre di
Devices più affidabili e maggiormente
“performanti” nel prevenire tali complicanze
è infine possibile che chi soffre di stroke
“criptogenetico” sia portatore di fattori
genetici o comunque
tromboemboligeni-ischemizzanti ancora
sconosciuti, che magari col passare del tempo
e con ulteriori studi potranno venire a
galla.
In ogni caso, il problema è ancora aperto.
14/1/2013
Fonti: HEARTWIRE, CLOSURE I, RESPECT, PC
trial.
Il By-pass coronarico è l’intervento di
rivascolarizzazione di 1° scelta nei
diabetici portatori di malattia coronarica
critica multi-vascolare
Lo studio FREEDOM , presentato ai primi di
Novembre 2012 al Congresso dell’American
Heart Association e pubblicato
simultaneamente sul prestigioso New England
Journal of Medicine, ha dimostrato che nei
pazienti diabetici portatori di malattia
coronarica aterosclerotica critica
multi-vascolare l’intervento chirurgico di
by-pass coronarico dà risultati
significativamente migliori
dell’angioplastica con stenting. Nello
specifico, il by-pass, rispetto
all’angioplastica con stenting, ha
determinato significativa riduzione di
infarto miocardico e di tutte le principali
cause di mortalità coronarica, come pure dei
maggiori effetti avversi cardiaci ad un anno.
Il by-pass coronarico, quindi, come già
evidenziato da precedenti studi sin dal 1990,
dovrebbe rimanere l’intervento di
rivascolarizzazione di 1° scelta nei
diabetici portatori di aterosclerosi
coronarica critica multivascolare (come lo è
tuttora nei pazienti portatori di stenosi
critica del tronco comune della coronarica
sinistra, cioè del più importante ramo
coronarico, nonostante diversi studi tesi a
dimostrare l’equivalenza o la superiorità
dell’angioplastica con stenting in questo
campo). Il by-pass coronarico, inoltre,
riduce la necessità di dover ricorrere a
nuovi interventi di rivascolarizzazione, a
differenza degli interventi percutanei.
L’angioplastica con apposizione di stent
medicato dovrebbe essere riservata a casi in
cui il by-pass non possa essere eseguito ( ad
es. per eccessivo rischio operatorio o per
anatomia sfavorevole delle coronarie o per
rifiuto del paziente) oppure nei casi in cui
si debba rivascolarizzare d’urgenza con
angioplastica primaria il vaso “colpevole” in
corso di un infarto miocardico acuto con ST
sopraslivellato.
Fonti: CARDIOSOURCE, HEARTWIRE, FREEDOM.
Parole chiave: BY-PASS CORONARICO –
ANGIOPLASTICA – STENT – DIABETE MELLITO –
INFARTO MIOCARDICO – MORTE CARDIACA –
ATEROSCLEROSI CORONARICA – PLACCHE
ATEROSCLEROTICHE CORONARICHE - REINTERVENTI
CORONARICIFonti: “Pacemaker therapy for patients
with neurally –mediated syncope and
documented asystole: a randomized controlled
double-blind trial”. ACC 2012, March 28.
“Cos’è il monitor cardiac impiantabile?”-
Medtronic Italy – www.Medtronic.it
Parole chiave: STATINE - INFARTO
MIOCARDICO - ANGINA PECTORIS -
RIVASCOLARIZZAZIONE MIOCARDICA - MORTE
PER CAUSA CARDIACA - CARDIOPATIA
ISCHEMICA - VASCULOPATIA
ATEROSCLEROTICA - ATEROSCLEROSI -
PLACCA ATEROSCLEROTICA - ATEROSCLEROSI
CORONARICA - SINDROME METABOLICA -
DIABETE MELLITO - STATINE - PREVENZIONE
PRIMARIA - INFARTO MIOCARDICO - MORTE
IMPROVVISA - ANGINA PECTORIS - ATEROSCLEROSI
CORONARICA - EVENTI CARDIOVASCOLARI - FATTORI DI
RISCHIO CARDIOVASCOLARE - IPERCOLESTEROLEMIA
- TROMBOSI – EMBOLIA –
FIBRILLAZIONE ATRIALE – ANTICOAGULANTI ORALI
–WARFARIN – EMORRAGIE – ICTUS – INSUFFICIENZA
RENALE - DISLIPIDEMIA –
BASSO HDL – LDL – STATINE
– ACIDO NICOTINICO – INFARTO MIOCARDICO
–MORTI CORONARICHE – BYPASS CORONARICO –
ANGIOPLASTICA CORONARICA – ICTUS –
ATEROSCLEROSI – PLACCHE CORONARICHE E
CAROTIDEE - ICTUS – TIA – EMBOLIE –
TROMBOSI – FORAME OVALE PERVIO – ISCHEMIA
CEREBRALE E PERIFERICA – ECOCARDIOGRAMMA
TRANSTORACICO E TRANSESOFAGEO -
ECOCONTRASTOGRAFIA - American College of
Cardiology, antiaggregante piastrinico,
Voraxapar, Stents coronarici,
Zotarolimus, Studio “ASCERT”,
coronaropatia multi-vasale,
Colesterolemia LDL, ipercolesterolemia,
sincope neuromediata, pacemaker
cardiaco
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