La fibrillazione atriale è un’aritmia (= disturbo dei ritmo cardiaco, cioè del “circuito elettrico” del cuore) caratterizzata dalla perdita della normale funzione contrattile degli atrii (cioè di quelle camere cardiache dalle quali il sangue passa nei ventricoli per essere poi espulso nel circolo sistemico e polmonare), per cui gli atrii, anzichè contrarsi ritmicamente per spingere il sangue nei ventricoli, “fibrillano”, cioè esprimono solamente piccoli e completamente caotici movimenti oscillatori. Venendo a mancare la spinta dovuta alla contrazione atriale, il sangue entra nei ventricoli “passivamente”, quando la differenza di pressione tra atrii e ventricoli lo consente; inoltre, la frequenza cardiaca diviene caotica, in quanto viene a mancare la normale corrispondenza tra una contrazione atriale ed una successiva contrazione ventricolare; nella fibrillazione atriale, infatti, i numerosi, piccoli e meccanicamente inefficaci stimoli elettrici che si formano caoticamente negli atrii vengono variamente, a seconda dei casi, ed irregolarmente “bloccati” o “filtrati” dal nodo atrioventricolare (una specie di “centrale elettrica” posta tra gli atrii ed i ventricoli attraverso la quale devono passare tutti gli stimoli provenienti dagli atrii e diretti ai ventricoli); a seconda del grado di blocco o filtro nodale, la frequenza cardiaca effettiva (cioè quella dei ventricoli) potrà essere più o meno elevata, comunque sempre irregolare (cioè con intervalli variabili tra un battito e l’altro, quindi caotica).
La fibrillazione atriale deriva generalmente da una malattia degenerativa cronica e progressiva degli atrii. Gli stimoli che la innescano derivano spesso dal tessuto atriale sinistro che circonda gli sbocchi delle vene polmonari, appunto in atrio sinistro. La fibrillazione atriale è un’aritmia comune. La sua prevalenza nella popolazione generale è dell’1% ed aumenta con l’aumentare dell’età, arrivando a superare il 10% negli ottuagenari. Bisogna inoltre sottolineare che un numero sconosciuto di persone soffre di fibrillazioni atriali parossistiche (cioè che vanno e vengono spontaneamente) non diagnosticate in quanto non sintomatiche (cioè il paziente non le avverte), che sono le più pericolose, poichè, mancando il “campanello d’allarme” costituito dal sintomo, il paziente può andare incontro improvvisamente ed inaspettatamente alle temibili conseguenze della fibrillazione atriale (in primo luogo le embolie arteriose ed in particolare quelle cerebrali, cioè gli ictus ischemici) senza aver potuto in precedenza iniziare una terapia preventiva delle stesse. Queste sono le cosiddette fibrillazioni atriali “silenti”, cioè che non danno sintomi e non vengono diagnosticate; si stima che la loro numerosità sia almeno pari a quella delle fibrillazioni atriali sintomatiche e diagnosticate.
La fibrillazione atriale raddoppia il rischio di morte ed aumenta sostanzialmente il rischio di scompenso cardiaco e di ictus cerebrale. Essa inoltre peggiora la qualità di vita di molti pazienti che ne sono affetti. Le embolie arteriose derivano dal fatto che, in presenza di fibrillazione atriale, il sangue, negli atrii, non circola bene ma “oscilla”-“ondeggia” caoticamente, ristagnando; si creano cioè le condizioni per una stasi circolatoria intraatriale, la quale a sua volta favorisce la formazione di trombi (= coaguli di sangue”); particolarmente pericolosi sono i trombi che si formano in atrio sinistro (e spesso nell’auricola sinistra, che è un’appendice digitiforme dell’atrio sinistro dove il sangue ristagna più facilmente), perchè da essi possono staccarsi degli emboli (= frammenti di coaguli) che, passando in ventricolo sinistro, vengono espulsi in aorta e da lì possono arrivare in qualsiasi distretto arterioso del corpo, quindi anche al cervello; se si verifica quest’ultima evenienza, il paziente accusa un ictus ischemico, cioè dovuto alla chiusura di un’arteria del cervello con conseguente sofferenza od infarto della parte di cervello che riceve sangue da quell’arteria.
I più comuni fattori di rischio per l’insorgenza di fibrillazione atriale sono l’età, l’ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco, la cardiopatia ischemica e le valvulopatie. Vi sono anche forme ereditarie di fibrillazione atriale, così come fibrillazioni atriali insorgenti in relazione ad attività sportiva di “endurance” ad elevate intensità e durata (es. maratona). Una fibrillazione atriale può anche scatenarsi su un cuore apparentemente “sano” a causa di stimoli irritativi extracardiaci intensi e/o prolungati (es. pasti abbondanti, eccessiva introduzione di alcool, droghe, fumo, turbe digestive, meteorismo…..).
Dal punto di vista terapeutico, la terapia anticoagulante orale è efficace nel prevenire gli ictus ischemici e più in generale le complicanze arteriose ischemiche nei pazienti con fibrillazione atriale; essa rappresenta attualmente l’unico trattamento disponibile significativamente efficace nel ridurre la mortalità cardiovascolare nei pazienti in fibrillazione atriale. La terapia antitrombotica è raccomandata in tutti i pazienti in fibrillazione atriale, ad eccezione di quelli considerati a “basso rischio” (fibrillazione atriale “isolata”, cioè rara o come unico episodio ed in assenza di segni clinico-ecocardiografici di altre malattie cardiovascolari - inclusa l’ipertensione arteriosa-, come pure in assenza di malattie polmonari correlate o comunque anomalie morfologiche cardiache che possano in qualche modo favorire la fibrillazione atriale e le trombo- embolie – ad esempio una dilatazione atriale sinistra; inoltre vengono considerati a basso rischio gli individui di età inferiore ai 65 anni). La terapia antitrombotica non deve inoltre essere somministrata nei pazienti che presentino controindicazioni ad essa.
Prima di iniziare un trattamento antitrombotico a lungo termine bisognerebbe quantificare, nei pazienti con fibrillazione atriale, il rischio di sanguinamento e stabilire un rapporto rischio-beneficio della terapia anticoagulante che si pensa di intraprendere; ciò spesso è molto difficile, anche perchè i fattori che influenzano il rischio trombo- embolico sono in gran parte gli stessi che influenzano quello emorragico ( scompenso cardiaco, ipertensione arteriosa, età, precedente ictus…).
Lo “score” di rischio trombo- embolico attualmente più in uso per decidere se iniziare o meno una terapia anticoagulante orale in una fibrillazione atriale non valvolare è il CHA2DS2-VASc Score; pazienti che presentano uno o più fattori di rischio maggiori sono candidati a terapia anticoagulante orale. L’Aspirina ha invece un ruolo molto limitato nella prevenzione del tromboembolismo da fibrillazione atriale; numerosi studi hanno dimostrato la sua scarsa efficacia, rispetto alla terapia anticoagulante orale, nel prevenire tale temibile complicazione.
Il trattamento iniziale della fibrillazione atriale comprende una valutazione per terapia antitrombotica, il trattamento di eventuali associate complicazioni (es. scompenso cardiaco), la normalizzazione farmacologica della frequenza cardiaca media se quest’ultima è significativamente alterata, un intervento sui sintomi del paziente ed una stratificazione della sua classe di rischio associato alla fibrillazione atriale, la ricerca di eventuali cardiopatie sottostanti e condizionanti l’insorgenza di fibrillazione atriale ( è necessario un ecocardiogramma per studiare anatomia, funzione e presenza di anomalie strutturali cardiache), la decisione se limitarsi a controllare la frequenza media ed i sintomi del paziente oppure se programmare un tentativo di Cardioversione (=Defibrillazione).
Il tentativo di Cardioversione (= ripristino del ritmo sinusale normale) della fibrillazione atriale può essere urgente, se l’aritmia determina una grave compromissione emodinamica del paziente, oppure elettivo (come nella maggior parte dei casi); in quest’ultima evenienza, esso andrà fatto dopo almeno 3 - meglio se 4- settimane di adeguata anticoagulazione , per minimizzare il rischio di tromboembolie arteriose. La Cardioversione potrà essere elettrica (erogazione di uno shock sincrono in corrente continua sul torace, meglio se con corrente bifasica- la cosiddetta “defibrillazione”- previa sedazione o sotto breve anestesia del paziente) oppure farmacologica endovenosa (i Farmaci più usati a tale scopo sono Propafenone, Flecainide oppure Amiodarone). Se il tentativo di Cardioversione risulta efficace (cioè si ha ripristino del ritmo sinusale), la terapia anticoagulante orale andrà continuata ancora per un mese dopo tale ripristino, poichè il rischio di complicanze tromboemboliche permane sinchè l’atrio sinistro non riprende regolarmente la sua normale attività meccanica (e ciò può richiedere un mese; non bisogna confondere infatti l’attività elettrica con quella meccanica dell’atrio, perchè le due possono essere dissociate). Anche a tale scopo l’ecocardiogramma risulta di fondamentale utilità. La decisione se continuare o meno a tempo indefinito una terapia anticoagulante orale andrà presa di volta in volta a seconda del profilo di rischio trombo- embolico residuo del paziente (ad esempio, un paziente con stenosi mitralica , atriomegalia sinistra e fibrillazioni atriali recidivanti andrà anticoagulato a tempo indefinito, indipendentemente dall’esito del tentativo di Cardioversione).
Nei casi in cui non si ritiene opportuno o necessario ricorrere a tentativo di cardioversione, ci si limita a controllare la frequenza cardiaca media con farmaci, mantenendola il più possibile nei limiti di norma, ed a correggere con adeguate terapie eventuali patologie-sintolatologie associate alla fibrillazione atriale. In linea di massima, quando possibile e fattibile, è sempre meglio cercare di mantenere il ritmo sinusale normale; per far ciò, una volta ottenuta la cardioversione, si inizia una terapia antiaritmica con farmaci specifici per tale scopo, che andranno comunque scelti e modulati a seconda sia delle copatologie presenti che della tolleranza del paziente e degli eventuali effetti collaterali di tali farmaci, come pure delle associazioni farmacologiche spesso necessarie per la presenza di altre patologie cardiache. In pazienti sintomatici, con fibrillazione atriale recidivante refrattaria ai farmaci, si può prendere in considerazione l’opzione dell’ ablazione con catetere a radiofrequenza diretto a “bruciare” i punti di origine più frequenti della fibrillazione atriale, cioè le zone adiacenti gli sbocchi delle vene polmonari in atrio sinistro. Bisogna peraltro tener presente che tale procedura è invasiva, non è esente da complicanze anche importanti e che il successo pieno (cioè l’assenza di recidive di fibrillazione atriale a più o meno lungo termine) non è assicurato.
Nei pazienti che per altri motivi debbano andare incontro ad un intervento cardochirurgico e siano portatori di fibrillazione atriale refrattaria, si può prendere in considerazione l’ablazione chirurgica della stessa durante l’intervento. Nei casi in cui non si riesca nè a mantenere il ritmo sinusale nè, in fibrillazione atriale rapida, a mantenere una normale frequenza media con i farmaci, si prende in considerazione l’ablazione a radiofrequenza del nodo atrioventricolare (cioè in pratica si elimina ogni possibilità di passaggio degli stimoli dagli atrii ai ventricoli), ma in tal caso è necessario impiantare un pacemaker cardiaco artificiale permanente, in quanto il paziente diviene interamente dipendente da esso per la stimolazione ventricolare. Un altro caso in cui è necessario un pacemaker cardiaco artificiale permanente è quello della fibrillazione atriale “lenta”, cioè in cui la frequenza cardiaca è troppo bassa a causa di una coesistente malattia degenerativa del nodo atrio-ventricolare che non conduce a sufficienza gli stimoli dagli atri ai ventricoli, bloccandoli. In tal caso la portata cardiaca è troppo bassa ed il paziente può sviluppare sintomi e segni di ipoafflusso cerebrale, sincopi (perdita di coscienza), scompenso cardiaco e così via. Un pacemaker cardiaco artificiale permanente è necessario anche come “sentinella” nei casi in cui, per poter mantenere il ritmo sinusale normale, è necessario che il paziente assuma farmaci antiaritmici a tempo indefinito ma, essendo il paziente portatore anche di una “malattia del nodo del seno” (cioè della “Centrale elettrica” del cuore), è già bradicardico di base, cioè anche senza farmaci il suo cuore è “lento”; dovendo assumere i farmaci antiaritmici (che già di per se stessi hanno un effetto bradicardizzante), c’è il pericolo che la bradicardia divenga eccessiva e sintomatica (anche con conseguenze gravi), per cui è necessario impiantare un pacemaker cardiaco artificiale permanente per poter trattare con tranquillità il paziente con gli antiaritmici senza il pericolo che il suo cuore rallenti troppo.
E’ importante cercare di correggere tutti i fattori di rischio cardiovascolare correggibili e curare al meglio le patologie cardiache sottostanti, per ridurre le probabilità di insorgenza e recidiva – persistenza di fibrillazione atriale. Nei pazienti con disfunzione – ipertrofia del ventricolo sinistro, gli ACE-inibitori ed i Sartani (cioè i bloccanti del Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone) hanno dimostrato una certa efficacia nel ridurre l’insorgenza di nuovi casi di fibrillazione atriale.
E’ importante sapere che la fibrillazione atriale (od il flutter atriale, che è una forma di aritmia atriale con attività elettrica atriale più “organizzata” di quella della fibrillazione, ma non meno pericolosa se trascurata) si può verificare anche in atleti e può dare conseguenze anche gravi, soprattutto se non riconosciuta. Particolarmente pericolosa è la fibrillazione atriale in soggetti (anche giovani e sportivi) portatori di “preeccitazione cardiaca”, cioè di un’anomalia congenita del circuito elettrico cardiaco per cui esiste una via elettrica anomala a conduzione rapida che collega gli atrii ai ventricoli ; se casualmente gli stimoli elettrici ad elevata frequenza provenienti dagli atri, anzichè passare dal nodo atrioventricolare (dove sono normalmente sottoposti ad una certa azione di “filtraggio”), imboccano questa via anomala, i ventricoli sono “investiti” da una raffica di stimoli irregolari ed a frequenze anche molto elevate, che possono portare a conseguenze anche molto gravi sino all’arresto cardiaco da fibrillazione ventricolare. Si tratta della “sindrome di Wolff-Parkinson-White”. In questi casi, il paziente deve essere sottoposto al più presto ad ablazione trans-catetere della via anomala.
Problemi aperti
Non è ancora pienamente stabilito il ruolo a medio-lungo termine dei nuovi anticoagulanti orali (inibitori diretti della Trombina e del fattore X) che si sono affermati in questi ultimissimi anni come possibile alternativa al Warfarin (Coumadin) od all’Acenocumarolo (Sintrom). Infatti, mentre da una parte i dati degli studi clinici su larga scala condotti con questi nuovi anticoagulanti suggeriscono che essi possono essere parimenti o più efficaci e/o con profilo di sicurezza pari o superiore a quello degli anticoagulanti tradizionali, non vi è ancora abbastanza esperienza nell’uso di questi nuovi farmaci nel “mondo reale”, cioè nella pratica clinica quotidiana al di fuori dei grandi studi clinici controllati. Non si può stabilire con certezza se l’assenza di fibrillazione atriale dopo una cardioversione od un’ablazione riuscite rappresenti una condizione di “basso rischio” e consenta di sospendere con una certa tranquillità l’anticoagulazione; infatti, possono sempre verificarsi recidive (a scadenze temporali imprevedibili, anche precoci) di fibrillazione atriale sia dopo cardioversione che dopo ablazione.
Non si sa bene se i nuovi anticoagulanti di cui sopra possiedano adeguate efficacia e sicurezza nella preparazione trombo- profilattica dei pazienti che devono andare incontro a tentativo di Cardioversione od in quelli portatori di protesi valvolari meccaniche o comunque di situazioni ad alto rischio trombo embolico (es. stenosi mitralica con atriomegalia sinistra). Non si sa se , analogamente a quanto avviene quando è necessario combinare gli anticoagulanti tradizionali (Coumadin o Sintrom) con antiaggreganti piastrinici (ad esempio pazienti con fibrillazione atriale sottoposti ad angioplastica con applicazione di stent coronarico ), sia possibile combinare, con accettabili margini di efficacia e sicurezza, i nuovi antitrombotici con gli antiaggreganti piastrinici.
Non sono ancora ben documentati successi a lungo termine ed in larga proporzione dell’ablazione atriale per la prevenzione della fibrillazione atriale e la riduzione di mortalità ed ospedalizzazioni a lungo termine con tale procedura. Non esiste ancora il farmaco antiaritmico “ideale”, cioè significativamente efficace e privo di effetti collaterali rilevanti . Abbiamo a disposizione diversi farmaci antiaritmici potenti, ma, come avviene anche per altre classi di farmaci, maggiore è la potenza e maggiori sono i possibili effetti collaterali. è necessaria un’approfondita conoscenza dei farmaci che si usano per poterli impiegare al meglio, anche considerando che essi vanno spesso associati con altri tipi di farmaci per le altre patologie di cui è portatore il paziente; è quindi importante, oltre ad una conoscenza approfondita dei problemi clinici del pazienti, saper usare bene l’”arte” della farmacologia, per poter ottenere i migliori risultati possibili col minor rischio di effetti collaterali importanti. Per far ciò, sono necessari anche controlli strumentali periodici ed adeguati (ECG-Elettrocardiogramma, Ecocardiogramma-Eco-color-Doppler Cardiaco, ECG secondo Holter, esami del sangue e quant’altro ritenuto necessario di volta in volta).
20/3/2012
Bibliografia: Essential Messages From European Society of Cardiology Guidelines For The Management of Atrial Fibrillation (2010 Version) Parole chiave: Fibrillazione atriale – Cardioversione – Farmaci Antiaritmici – Ablazione – Ecocardiogramma – Eco-color-Doppler Cardiaco- Elettrocardiogramma –ECG – Trombosi – Embolia – Anticoagulanti – Antitrombotici – Preeccitazione cardiaca – Wolff Parkinson White – Pacemaker – Coumadin- Sintrom – Malattia del Nodo del Seno – Nodo Atrioventricolare –Bradicardia – Tachicardia - Aritmia |